#ingredientedelmese: il "maito"
Aggiornamento: 16 nov 2023
Dopo quasi un anno di assenza torna la rubrica “L’ingrediente del mese”, dedicata agli ingrediente più caratteristici e, in molti casi, sconosciuti ai più in Italia.
L’ingrediente di questo mese in realtà non è un vero e proprio ingrediente, non essendo
commestibile in sé. Eppure è un elemento fondamentale nella preparazione di uno dei piatti più emblematici della regione amazzonica ecuatoriana, il “maito”.
Il maito, spagnolizzazione del termine Kichwa “maytu”, si può tradurre grossomodo in
italiano come “cartoccio”. Infatti il maito in sé non è un piatto o una preparazione
gastronomica ma solo una tecnica per cucinare gli alimenti.
In generale la gastronomia degli indigeni amazzonici si distingue per la semplicità delle preparazioni e questo è dato dall’ambiente e dal clima della foresta, che obbliga praticamente al solo uso di ingredienti freschi essendo molto difficoltosa la conservazione degli stessi, ma anche dallo stile di vita tradizionale indigeno.
Essendo popolazioni tradizionalmente seminomadi che si spostavano da un posto all’altro, a piedi, caricando sulle proprie spalle tutti i propri averi, cercavano di limitarsi all’essenziale, e tutto o quasi proveniente dalla selva.
Se c’è una cosa che nella selva non manca sono le foglie, di differenti forme e dimensioni,che vengono usate per innumerevoli funzioni, per esempio per intrecciare i tetti delle capanne tradizionali quindi non c’è da stupirsi che queste entrino e abbiano un ruolo importante anche nella cucina.
Il “maito” viene usato per cucinare diversi tipi di carne, pesce e vegetali ed è un sistema molto efficiente. I cartocci di foglie vengono preparati con 2 o 4 foglie, legati con fibre naturali, aggiungendo solamente sale e un po’ d’acqua e poi messi sui carboni ardenti. In questo modo si uniscono i vantaggi della cottura alla brace con quelli della cottura a vapore, preservando al massimo le sostanze nutritive contenute negli alimenti.
Ovviamente non tutte le foglie si possono usare per questo tipo di cottura. Devono essere di grandi dimensioni (almeno 50 per 30 cm), resistenti e con un buon spessore per evitare che si brucino completamente sulla brace e allo stesso tempo flessibili per evitare che si rompano e facciano gocciolare via i succhi di cottura. Oltre a questo, ovviamente, non devono essere tossiche né impartire sapori sgradevoli alle pietanze.
Tutti questi requisiti vengono rispettati dalle foglie di piante del genere Calathea e di altri
della famiglia delle Marantaceae.
La specia più usata è la Calathea lutea, una pianta erbacea perenne, originaria dei paesi
dell’America tropicale, con radici rizomatose, da cui spuntano direttamente foglie di grandi
dimensioni, da 30 a 150 cm di lunghezza per 20-60 cm di larghezza, con un picciolo lungo
da 1 a 2 metri.
Questa non è l’unica specie usata ma è quella che presenta le foglie più resistenti e di più
grandi dimensioni. Ci sono invece specie affini con foglie più piccole che sono state
selezionate a uso ornamentale, con foglie variegate di vari colori, che magari qualcuno di
voi che sta leggendo ha in casa come pianta d’appartamento.
Nel loro ambiente naturale questo tipo di piante crescono nel sottobosco della foresta
perché non hanno bisogno di luce solare diretta; al giorno d’oggi vengono anche coltivate
dalle comunità indigene per averle sempre a portata di mano a fianco della cucina.
Le foglie di bijao non vengono utilizzate solo per preparare il maito, hanno anche la
funzione di piatto, di tovaglia, di coperchio per le pentole di terracotta, di sacchetto per
immagazzinare o trasportare cibo, semi o altri piccoli oggetti e molto altro.
Sono una soluzione pratica e, come oggi va tanto di moda dire, “verde ed ecosostenibile”,
completamente biodegradabile dopo l’utilizzo, ma sapete qual è il vantaggio più grande del
loro uso? Il non dover preoccuparsi di lavare i piatti dopo aver mangiato!
Giacomo Rubini per NINA
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