#ingredientedelmese: "L' Ungurahua"
Per chi, come chi scrive, vive fuori dall’Italia da tanti anni, è normale fare i conti col fatto di non poter trovare tutti i prodotti alimentari che si era abituati a consumare in Italia. La lista è lunga ma dall’altro lato sono tanti anche i nuovi prodotti che si imparano ad apprezzare, tra cui tutti quelli di cui ho scritto nei precedenti articoli dell’”ingrediente del mese”.
Tra i prodotti di cui si sente sicuramente la mancanza uno di questi è l’olio di oliva. Non che in Ecuador non si riesca a trovare però pagare quasi 10 € per un litro del peggior olio spagnolo che in Italia farebbe bella mostra di sé solo sugli scaffali di un discount non è cosa di mio gradimento, per non parlare della sostenibilità ecologica. E così ci si accontenta di centellinare “per le occasioni speciali” il poco olio buono che noi stessi o qualche persona di buon cuore ha trasportato “di contrabbando” in valigia di ritorno dalla madrepatria.
Eppure proprio qui, nella foresta amazzonica, esiste una pianta dai cui frutti si può ricavare un olio praticamente identico, come composizione e in parte anche come sapore, all’olio di oliva.
Si tratta della palma Oenocarpus bataua, conosciuta come ungurahua o shiwa in Kichwa.
È una palma originaria della regione amazzonica che può arrivare a superare i 20 metri di altezza. Una palma adulta possiede circa da 10 a 16 enormi foglie che possono arrivare a 8 metri di lunghezza. I frutti sono di colore nero-violaceo di 3-4 cm di lunghezza. Ogni palma produce 3-4 grappoli di frutti ogni anno e ogni grappolo può arrivare a contenere più di mille frutti.
I frutti sono altamente nutrienti e contengono circa il 10% di olio e il 4% di proteine. Si possono consumare tal quali, lasciandoli ammorbidire qualche ora in acqua tiepida e hanno un sapore che alcuni dicono ricordi il cioccolato ma a me personalmente sembra più simile alle olive nere senza sale. Con i frutti si può preparare anche una bevanda molto nutriente della consistenza simile al latte, oppure si può mescolare alla manioca per preparare uno speciale tipo di chicha.
L’uso più importante che se ne dà rimane l’estrazione dell’olio. Gli indigeni amazzonici usano di solito un metodo piuttosto semplice, dopo aver lasciato ammorbidire i frutti in acqua li mettono a bollire in una grande pentola e raccolgono l’olio mano a mano che galleggia sulla superficie. Un metodo rudimentale e con rese piuttosto basse dato che a volte dall’intero raccolto di una palma si ricava sì e no un litro d’olio. Inutile dire che con un minimo di tecnologia in più (basterebbe una semplice pressa o torchio artigianale) le rese e l’efficienza dell’estrazione potrebbero essere molto più alte, ma non sembra esserci grosso interesse, almeno per il momento, in questo prodotto che avrebbe invece grandi potenzialità, date anche le ottime proprietà nutritive dell’olio di ungurahua. Olio che, come è il caso del sacha inchi, viene sempre meno usato per l’alimentazione e sempre di più per uso cosmetico. Viene infatti usato in prodotti per la cura del capello e il suo prezzo è piuttosto alto, favorendone così la vendita a discapito dell’uso personale da parte delle comunità indigene.
La palma di ungurahua ha bisogno di trovarsi nell’habitat della foresta per crescere. Infatti le palme giovani, fino ai 4 metri di altezza, hanno bisogno di ombra e morirebbero se esposte al sole diretto. Per questo la coltivazione è possibile solo in sistemi agroforestali con alberi grandi che proteggano dal sole le piante giovani. Nell’attualità la coltivazione è poco diffusa, sfruttando nella stragrande maggioranza le palme che crescono spontaneamente ma queste popolazioni sono minacciate dalla deforestazione e dalla cattiva abitudine di abbattere le alte palme per raccoglierne i frutti. Una palma di ungurahua ha bisogno di minimo 10-15 anni prima di dare frutto quindi questo metodo non è assolutamente sostenibile e sta riducendo sensibilmente il numero di esemplari.
Ancora una volta il conflitto tra sovranità alimentare e sfruttamento economico rischia di mettere in pericolo il destino di questo ”ulivo amazzonico”.
Giacomo Rubini per NINA APS
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