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#vocidalcampo: le mamas di Amupakin

“E poi c'è un'associazione di donne vicino a Tena che praticano il parto tradizionale e le piante medicinali, potrebbe essere interessante collaborare”.


Fu questa la prima volta che sentii parlare di Amupakin.

Ero ancora a Roma, e l'Ecuador fino a quel momento esisteva soltanto nei racconti delle tante persone che incontrammo durante quegli intensi giorni di formazione prepartenza.


Passarono quasi due mesi, già ci stavamo inserendo nel contesto di Tena, della Casa Bonuchelli e ognuno di noi volontari stava cercando “il suo posto” nei vari progetti e realtà del territorio.

Fu in quel momento che di nuovo sentii parlare di Amupakin ed ebbi l'occasione di visitarlo di persona e, di lì a poco (poco nella concezione ecuadoriana del tempo, perché passarono altre 4-5 settimane) poter iniziare a frequentarlo più assiduamente includendolo nelle mie attività di volontariato.


Il nome Amupakin, al contrario di quello che si può pensare, non è una parola in lingua indigena ma un acronimo in spagnolo e sta per “Asociación de Mujeres Parteras Kichwa de Alto Napo(Associazione di Donne Levatrici Kichwa della regione dell'Alto Napo).

Amupakin nasce quasi 30 anni or sono, dall'idea, o per meglio dire dal sogno di Maria Antonia Shiguango, levatrice ancestrale che all'epoca era costretta a camminare di casa in casa, dove veniva chiamata a svolgere il suo importantissimo ruolo di portare alla luce nuove vite. Maria Antonia voleva riunire tutte le levatrici ancestrali che operavano nella regione del Napo per poter scambiare conoscenze, avere un posto sicuro in cui lavorare ma soprattutto essere un'associazione di donne unite e organizzate perché, si sa, uniti si è più forti.

Fu così che nacque l'Associazione, che col tempo riuscì a trovare l'appoggio di alcune organizzazioni straniere, tra cui la Croce Rossa Spagnola, che finanziò la costruzione degli edifici e con cui si iniziò un progetto che prevedeva la collaborazione tra medicina convenzionale e indigena, in cui le parteras operavano al fianco di medici e infermieri in un processo in cui entrambe le parti ne traevano beneficio.

Oltretutto dava alle mamas il giusto riconoscimento, anche economico, per il proprio lavoro e questo promosse l'arrivo di nuove socie, che arrivarono fino a 80, provenienti a volte anche dalle provincie amazzoniche vicine.

Quando tutto sembrava andare a gonfie vele, qualcosa nell'ingranaggio del progetto non funzionò. Il rapporto tra medici e parteras si stava deteriorando, fino al punto che durante i parti alle mamas era consentito soltanto guardare, mentre medici e infermieri operavano.

La situazione divenne intollerabile tanto da costringere le socie a terminare il progetto con la Croce Rossa Spagnola.


Iniziò per Amupakin un periodo difficile, che non è facile neppure da riassumere in poche righe, tante sono le vicissitudini che hanno dovuto affrontare le socie.

Rimaste senza appoggio esterno le socie hanno deciso di continuare da sole l'attività, ma questo agli inizi non è stato facile, soprattutto da un punto di vista economico.

Per questa ragione molte socie sono state costrette ad abbandonare l'associazione per mancanza di ingressi economici, tanto che il loro numero si è ridotto dalle 80 degli “anni d'oro” fino alle attuali 9 socie attive.

Per la stessa ragione le mamas hanno dovuto reinventarsi anche in altre attività per potersi sostenere. È così che hanno iniziato a ricevere gruppi di turisti, dare servizio di ristorazione per corsi o eventi organizzati da istituzioni pubbliche, produrre e vendere artigianato, prodotti medicinali vari, etc.


Io venivo ad Amupakin soprattutto per la mia passione per le piante. L'Amazzonia per me, abituato alla relativamente misera selezione di piante nostrane, era una galassia sconosciuta in cui non era facile districarsi. Accompagnato da queste sagge conoscitrici di una cultura millenaria mi aggiravo per i loro orti, chiedevo nomi, prendevo appunti, facevo foto.

Sopportavo le interminabili riunioni dell'associazione che duravano ore e ore, tutte rigorosamente in lingua Kichwa, di cui all'epoca non capivo praticamente una parola.

Prendevo parte alla loro vita quotidiana, aiutavo anche in attività che non avevano niente a che fare con quello per cui ero venuto, come mi ricordo un intero pomeriggio a caricare e scaricare pietre per le fondazioni della nuova area di lavanderia.

A poco a poco riuscì a entrare in un mondo indigeno autentico, non facilmente accessibile agli awallta runa (letteralmente “gente di su”, una maniera in cui viene chiamato chiunque non sia amazzonico e allude al fatto che chiunque venga da fuori venga dagli altipiani e quindi “da su”) o ai turisti, a cui spesso viene mostrata una facciata che non va oltre al folklore fine a sé stesso.


La storia di Amupakin è simile a tante altre storie di realtà indigene, che lottano per non scomparire, le cui socie ogni anno si ritrovano più vecchie e più stanche, che vedono la maggioranza dei propri giovani disinteressarsi totalmente delle cose antiche.


Amupakin in questi anni mi ha fatto scoprire tante cose, mi ha fatto ridere, mi ha fatto piangere, mi ha fatto arrabbiare, anzi incazzare terribilmente, mi ha fatto sentire impotente, ma anche fortunato, mi ha fatto mettere in discussione tutto ciò che pensavo della cultura indigena per poi rendermi conto che su tanti aspetti non ci avevo capito niente.


Giacomo Rubini per Nina APS


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