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#vocidalcampo: agricoltura indigena, sinergia del caos.

Amazzonia nell’immaginario di tutti significa foresta. È difficile immaginare un ambiente naturale in cui la vegetazione sia più rigogliosa ed esuberante così come appunto nella foresta amazzonica.

Facendo due più due, se l'agricoltura consiste nella coltivazione di specie vegetali e quindi "far crescere piante", quale ambiente più favorevole dell'Amazzonia per questo?


Così pensarono anche i primi missionari che, alcune centinaia di anni fa, misero per la prima volta piede in Amazzonia. Vedendo la rigogliosità della foresta, clima caldo, con piogge in abbondanza erano sicuri che qualsiasi seme buttato in terra avrebbe dato abbondanti frutti senza troppo sforzo.

Originari dell'Europa, applicarono quindi l'unico modo di fare agricoltura che conoscevano. Scelto l'appezzamento di terreno, con uno sforzo non indifferente e servendosi di manodopera indigena, fecero abbattere completamente gli alberi e sgombrare accuratamente il terreno da ogni residuo di tronchi e rami. Poi, con uno sforzo ancora più grande, dissodarono il terreno dalle radici e lo fecero arare. Guardarono così con soddisfazione quel campo ben lavorato e pulito e procedettero con la semina di mais, fagioli e ortaggi.

Le cose all'inizio non andavano neanche troppo male, a parte le erbe infestanti che soffocavano le colture con una velocità impressionante ma, bene o male, si ebbe un discreto raccolto.


Il secondo ciclo andò un po' peggio, le infestanti diventarono sempre più invasive, dure e resistenti, mentre le colture stentavano.

Dopo neanche un anno i missionari desistettero, mais e fagioli crescevano rachitici, le foglie si ingiallivano e le piante morivano prima di dare frutto. Anche le piante di ortaggi si ammalavano rapidamente e le uniche che sembravano prosperare erano le tenacissime erbe infestanti, liane. arbusti spinosi e poco altro.

I missionari non sapevano spiegarsi il perché e fu solo allora che, stanchi e affamati, volsero lo sguardo agli orti indigeni che crescevano vicini, con abbondante manioca, banano, palme, alberi da frutta, chiedendosi dove avevano sbagliato.


Pensare che i suoli amazzonici siano molto fertili è un preconcetto piuttosto comune, mentre invece è vero proprio il contrario.

Il suolo della foresta amazzonica è molto povero di nutrienti, acido, con uno strato fertile che non va oltre i 10 cm e al di sotto del quale si trova pura argilla rossastra. Le continue e abbondanti piogge poi contribuiscono a dilavare ulteriormente i pochi nutrienti rimasti.

La foresta amazzonica però è un sistema efficientissimo nel riciclare i nutrienti, in cui qualsiasi tipo di materia organica viene decomposta in maniera molto rapida da una miriade di insetti e microrganismi per essere riassorbita dalle piante in un sistema praticamente chiuso e il tutto nei primi 10 cm di suolo.


Un sistema che funziona però se tutto il "sistema foresta" rimane integro. Quando lo si altera con il disboscamento il meccanismo si blocca. L'esposizione a sole e pioggia senza il riparo della chioma degli alberi causa la morte della maggior parte dei microrganismi e il dilavamento dei pochi nutrienti rimasti nel giro di pochi mesi e questo spiega gli scarsi risultati dei primi tentativi di coltivazione con metodi europei.

La domanda sorge spontanea: Quale tecnica utilizzano le popolazioni indigene per poter coltivare i fragili suoli amazzonici? La risposta è relativamente semplice: in un tipo di ambiente in cui l'ecosistema naturale è rappresentato dalla foresta l'unica tecnica di coltivazione sostenibile è quella di imitare il bosco naturale adattandolo però alle proprie esigenze. Una sorta di permacoltura ante litteram evolutasi nei millenni, che ha portato anche all'addomesticamento di alcune specie botaniche, come è il caso emblematico della palma di chonta.

Un sistema complesso, che in lingua Kichwa prende il nome di chakra (ma non ha niente a che vedere con le filosofie orientali!). Un sistema che, come la foresta, si sviluppa su più strati e racchiude un'enorme varietà di piante utili senza alterare significativamente l'ecosistema naturale. Ai nostri occhi di occidentali – come ai miei del resto quando, appena arrivato, mi venivano mostrati esempi di chakra – questi sistemi possono apparire come un ammasso piuttosto disordinato di alberi, arbusti, liane e palme.


È proprio questo apparente disordine la forza della chakra, in cui, come nel bosco naturale, le differenti piante si rafforzano tra loro, i grandi alberi emergenti con le loro chiome proteggono il suolo dal sole e dalle forti piogge senza però togliere tutta la luce alle piante sottostanti: alberi da frutta più piccoli, palme, liane e piante di ciclo corto permettendo loro di crescere liberamente. Poco ordine ma tanta vita.


Giacomo Rubini per NINA APS


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